Posted on 23 Marzo 2016 by
Alessia Musumeci in
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Commenti disabilitati su 29 Aprile 2016 – Modulo di formazione: La nuova edizione ISO 9001:2015 e aggiornamento per Auditor
Smartman srl in collaborazione con
Certiquality organizza questo modulo formativo che presenta le novità introdotte dall’edizione 2015 alla norma ISO 9001.
Il corso è organizzato per il giorno 29 Aprile 2016 e si terrà presso il CONSORZIO FERRARA INNOVAZIONE a Ferrara Via Mons. Maverna 4
A CHI E’ INDIRIZZATO:
E’ quindi ideato per chi già conosce l’edizione precedente della norma. Buona parte della giornata sarà dedicata all’approfondimento dei nuovi requisiti e alle modifiche su quelli esistenti. Verrà poi presentato un caso di studio che permetterà un approfondimento ulteriore.
Per coloro che vogliono aggiornare la propria qualifica di auditor è previsto un esame finale al superamento del quale verrà emesso un attestato di riqualifica.
Il Corso si rivolge a chi intende conoscere i nuovi requisiti della Norma e le differenze con la passata edizione. E’ rivolto inoltre a chi è già in possesso di un attestato da Auditor e desidera riqualificarsi per l’edizione 2015.
CONTENUTI DEL CORSO:
Il corso presenta le novità introdotte dall’edizione 2015 alla norma ISO 9001, i principali contenuti sono i seguenti:
– cosa è cambiato rispetto alla prima edizione
– gli obiettivi per le aziende con l’utilizzo della nuova norma
– la gestione di rischi e opportunità
– l’impostazione del sistema documentale
– i requisiti della norma ISO 9001: 2015
REQUISITI DI ACCESSO:
E’ necessaria la conoscenza dell’edizione precedente della Norma ISO 9001. Per coloro che sono già Auditor e desiderano riqualificarsi, è richiesto l’invio di una copia dell’Attestato di Qualifica come Auditor. Ad ogni partecipante verrà rilasciato un attestato di frequenza al Corso. Ai partecipanti già Auditor e che supereranno l’esame, verrà rilasciato l’Attestato di Riqualifica come Auditor secondo la norma ISO 9001:2015.
ISCRIVITI AL CORSO:
La quota di partecipazione al corso è di 380 euro + IVA
Sconto del 15% riservato ai clienti Smartman
Si prega di iscriversi al corso al seguente LINK
Posted on 23 Marzo 2016 by
Alessia Musumeci in
Marketing with
Commenti disabilitati su Welfare aziendale: i benefit sul podio
Tra i fringe benefit più gettonati vi sono la sanità integrativa e gli sconti. Una valutazione che sembra essere diretta conseguenza della crisi economica, che spinge lavoratori ed imprese verso specifiche forme di welfare aziendale. Lo rivela la surveypromossa da Welfare Company (curata dal Prof. Luca Pesenti, Docente di Organizzazioni Sociali e Welfare Plurale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) e condotta tra oltre 100 manager delle Direzioni del Personale di altrettante aziende operanti in Italia. Oltre alle polizze sanitarie (46%), tra i benefit sul podio di questa particolare classifica troviamo anche la flessibilità di orari (45,9%) e le convenzioni per garantire sconti e agevolazioni ai dipendenti (36,7%).
Il welfare di oggi
La ricerca evidenzia inoltre come le aziende socialmente più responsabili, per aiutare i propri dipendenti in questo particolare momento di difficile congiuntura economica, abbiano implementato da alcuni anni progetti strutturati di welfare aziendale: il 52% delle imprese evidenzia oltre sei misure messe a disposizione dei dipendenti e delle loro famiglie. Il motivo risiede nella consapevolezza da parte degli imprenditori dei beneficigenerati dall’aver introdotto queste logiche nel rapporto di lavoro, in termini diproduttività, grazie ad una maggiore soddisfazione e benessere dei lavoratori, come sottolinea lo stesso Luca Pesenti:
«Nell’opinione degli intervistati il welfare aziendale si è confermato come un prezioso alleato per ridurre la conflittualità, migliorare il clima aziendale e la produttività, grazie anche ad una sua evidente efficacia nel ridurre l’assenteismo (su questi aspetti concorda anche un campione di delegati sindacali della Cisl che ha fatto da “gruppo di confronto”), è anche emerso il desiderio quasi unanime di vedere presto realizzato un aggiornamento sia della disciplina fiscale (75%), sia di quella giuslavoristica (61%)».
Riassumendo, secondo i manager il welfare è utile soprattutto a:
- ridurre la conflittualità;
- migliorare il clima aziendale;
- contenere il tournover;
- ridurre l’assenteismo.
Il welfare di domani
Secondo i manager, faciliterebbe una maggiore diffusione degli strumenti di welfare aziendale semplificare la normativa:
- il 75% del campione ritiene che un aggiornamento delle norme fiscali sia molto importante;
- il 61% ha la stessa opinione rispetto alla disciplina giuslavoristica.
Bisognerebbe poi porre una maggiore attenzione alla persona come primo stakeholder dell’impresa, ancor prima di abbassare il costo del lavoro.
Per il futuro, i manager propongono di:
- ampliare il tipo di bisogni cui si può rispondere con i servizi di welfare aziendale;
- innalzare l’attuale valore di deducibilità dei costi sostenuti dall’impresa, con riferimento agli oneri di utilità sociale previsti dall’art.100 del TUIR;
- stabilire un plafond massimo in cui comprendere tutti i benefit aziendali di welfare.
Gregorio Fogliani, presidente della controllante Qui!Group Spa, sottolinea:
«Per noi imprenditori è essenziale poter vedere con chiarezza le soluzioni. La normativa applicabile al welfare aziendale è oggi frammentaria e incerta. Non è un caso che il 90% delle aziende intervistate sia sia detto d’accordo con l’introduzione di un plafond massimo omnicomprensivo nel quale ricomprendere tutti i benefit, a partire dai Buoni Pasto che sono quelli più diffusi e graditi».
(Fonte: survey promossa da Welfare Company).
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Posted on 22 Marzo 2016 by
Alessia Musumeci in
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Commenti disabilitati su Management inefficace: le conseguenze sulle risorse umane
Nel 54% delle PMI (dati Domino Simply Management) si verificano difficoltà nel far eseguire le attività assegnate, con conseguenze su produttività e risultati aziendali. Invece di far ricadere la responsabilità solo sui collaboratori si sta facendo strada l’idea che possa trattarsi di un problema di management: un comportamento troppo autoritario alimenta un clima pesante in ufficio e favorisce stress, paura e burn-out, compromettendo alla lunga motivazione e performance. Qui di seguito alcune strategie fondamentali per investire al meglio sul capitale umano.
Management inefficace = scarsa produttività
- Management inefficace. Tra i comportamenti inefficaci in capo alla dirigenza si sottolinea per esempio un’errata gestione delle deleghe. Nel libro “Gli errori dei manager” (A. Foglio) si dimostra quanto sia improduttivo optare per un’eccessiva granularizzazione dei compiti, che penalizza l’autonomia. Una corretta delega permette invece di: riconoscere ai subalterni il proprio ruolo, disponendo di capacità specifiche senza sovrapposizione di funzioni; esercitare un puntuale e costante controllo; favorire la crescita individuale aumentando impegno e motivazione; massimizzare la resa.
I risultati di un comando inefficace, tra l’altro, possono essere drammatici anche per i manager in bilico nelle loro posizioni apicali. A supporto di questa tesi, diversi i casi di capi defenestrati per l’impatto negativo sulle risorse del proprio atteggiamento: Jill Abramson (New York Times) eccessivamente autoritaria; Jack Welch (General Electric) licenziatore seriale”; Jeff Bezos (Amazon), nei sondaggi peggior datore di lavoro al mondo. Di fatto, secondo Theodore Dysart (Heidrick & Struggles International), le aziende sarebbero dunque sempre più riluttanti ad assumere dirigenti noti per comportamento lunatico o aggressivo, nonostante buoni risultati di business.
- Management efficace. Il vero must è dunque lasciar lavorare e collaborare, motivare i dipendenti facendo sinergia dentro e fuori l’azienda. La leadership in questo senso richiede guida e cooperazione con i lavoratori. Secondo un recente sondaggio Hays (società di recruitment), il capo ideale deve essere un mentore (51% degli intervistati), un riferimento in grado di spronare e ispirare (47%), offrendo supporto nel percorso di crescita professionale (47%). Ma per realizzare efficaci programmi di mentoring è necessario il reale committment del management e un applicazione in tutti i reparti, lavorando sul medio-lungo termine. Onestà (44%) ed esperienza (42%) sono ulteriori valori intrinsecamente legati al ruolo di manager. Così come capacità di ascoltare, fornendo feedback senza intaccare l’autonomia decisionale ma creandosi piuttosto una rete di relazioni all’interno dell’azienda.
Management efficace = elevata produttività
La partecipazione dei lavoratori ne aumenta la produttività e ha effetti positivi su performance e resilienza delle aziende (sondaggio Gallup per Eurofound), ma per migliorare la produttività si deve agire tanto sul dipendente quanto sul manager. Per prima cosa, pertanto, è importante effettuare un’analisi del clima aziendale (rivolgendosi a esperti che possano garantire l’obiettività delle rilevazioni), sulla base dei risultati, implementare adeguate azioni adattive.
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Posted on 21 Marzo 2016 by
Alessia Musumeci in
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Commenti disabilitati su Pmi e internazionalizzazione: binomio possibile?
Secondo alcuni, la dimensione ridotta, la scarsa managerialità, la proprietà familiare e la presenza prevalente in settori maturi, impediscono un efficace sviluppo oltreconfine delle Piccole e medie imprese.
Questa visione va, almeno parzialmente, smentita, per superare i luoghi comuni sostenuti da chi giudica le PMI senza conoscerle approfonditamente e per introdurre un nuovo approccio in grado di favorire la loro presenza sui mercati esteri.
Molte piccole imprese italiane hanno capito da tempo l’importanza di aprirsi all’estero e hanno saputo raccogliere la sfida. Queste aziende, oggi, nonostante il crollo della domanda interna, riescono a distinguersi con performance economiche sopra la media. È da queste realtà che si deve imparare, dall’osservazione dei loro comportamenti strategici e organizzativi che possono essere replicati anche in altre situazioni.
Rafforzarsi in Italia per conquistare l’estero
Una prima considerazione che l’osservazione di molti casi eccellenti consente di fare, riguarda proprio larelazione tra internazionalizzazione e performance.
Sembra di poter affermare che, se una piccola impresa è forte in Italia, ha maggiori chance di conquistare anche i mercati esteri. Le aziende internazionalizzate mostrano risultati migliori di chi si è limitato al mercato domestico e dunque appiano più solide, più competitive ma, nella maggioranza dei casi, lo erano già prima di avviare la loro espansione all’estero, processo che è stato possibile proprio grazie alle risorse accumulate in precedenza.
Essere forti porta con più facilità all’internazionalizzazione e non viceversa, a causa delle risorse, degli investimenti e dei costi fissi necessari per farsi conoscere all’estero. Se si condivide questo passaggio conviene dunque puntare, prima di tutto, a un rafforzamento interno all’impresa in termini strategici.
Interventi estemporanei solo sul fronte esterno, per esempio le missioni all’estero attraverso sussidi di istituzioni pubbliche, in assenza di una certa solidità interna difficilmente portano ricadute sostanziali.
Questa forza, alla base del processo di internazionalizzazione, non sembra correlata al tipo di settore o mercato scelto per competere. Si trovano imprese con ottimi risultati sui mercati internazionali, pressoché in ogni comparto merceologico, da quelli considerati maturi a quelli più evoluti.
Orientarsi al lungo termine
Un primo elemento ricorrente è quello di essere imprese guidate secondo una prospettiva dimassimizzazione del profitto nel medio-lungo termine. Ciò significa che gran parte delle decisioni rilevanti, inclusa quella di esplorare i mercati esteri, sono prese secondo un orizzonte di lungo periodo, con la capacità di sopportare ritorni non immediati.
Le fiere internazionali, le attività di comunicazione, l’inserimento di personale dedicato all’export sono portate avanti con costanza e vagliate non solo nel breve periodo.
Confrontarsi con “i migliori”
Una seconda caratteristica importante è l’attitudine a confrontarsi con chi è più avanti, anche se geograficamente lontano, ovvero con chi ha saputo proporre soluzioni creative a problemi emergenti, con chi ha messo a punto prodotti, servizi, strutture e meccanismi innovativi e con chi ha affermato logiche e modalità di pensiero non ripetitive.
Le imprese “forti” appaiono come “imprese-spugna”, che assorbono e metabolizzano quanto l’ambiente loro circostante propone. Confrontarsi con chi è più bravo, sia pure limitatamente a singole aree dell’agire aziendale, amplia le opportunità di crescita perché permette di visualizzare un più alto livello di operatività già realizzato e dunque imitabile e, in alcuni casi, anche migliorabile.
Specializzarsi e non diversificare
Una terza peculiarità riguarda la scelta strategica di specializzarsi in un prodotto e/o in un servizio piuttosto che inseguire la diversificazione per poi darsi l’obiettivo di operare, eventualmente, anche su scala globale.
Cambiare completamente la propria combinazione strategica perché ritenuta, anche a ragione, in crisi per inseguirne altre più alla moda significa snaturare una consuetudine tipica, in particolare, delle piccole e medie imprese: l’imprenditore non è uomo per tutte le stagioni, profilo che più si avvicina alle caratteristiche di chi si muove secondo la prospettiva del finanziere, e dunque lega il proprio business a fattori molto specifici, spesso casuali.
Le mansioni svolte e il settore dell’azienda in cui ha operato da dipendente prima di rischiare in proprio, il crescere all’interno di una famiglia proprietaria di un’impresa presente in un certo comparto, le specializzazioni del distretto territoriale in cui è nato e cresciuto, la formazione professionale acquisita ed altre circostanze tipiche della vita di ciascuno sono fatti che indirizzano l’esperienza dell’imprenditore, come quella di chiunque altro, e che orientano il suo fare impresa.
Pensare di poter cambiare con facilità e con successo di risultati la predisposizione che nasce da questoaccumulo di esperienza pregressa è molto meno logico che applicarsi con maggiore creatività per migliorare la combinazione strategica originaria recuperando l’efficienza e l’efficacia eventualmente persa per causa propria o, più probabilmente, per maggior dinamismo altrui.
Fare innovazione
Una quarta caratteristica, riconosciuta come fondamentale per rafforzarsi e poi penetrare nuovi mercati, è la capacità di fare innovazione anche operando in settori considerati maturi e tradizionali.
L’impresa forte mostra di continuo quest’abilità di rinnovamento e riesce a cogliere opportunità sorprendenti in ambiti dove apparentemente tutto sembra già scoperto. Il sistema competitivo è in continua evoluzione e sempre nuovi concorrenti possono presentarsi sul mercato, sia questo caratterizzato da prodotti di massa che da prodotti di nicchia.
Non ci si può fermare, vince chi cambia: gli eccellenti risultati economici conseguiti non rappresentano da soli una certezza di un domani altrettanto effervescente e pertanto non devono costituire una barriera a nuovi investimenti, ma devono essere il trampolino per la ricerca di nuove opportunità. Adagiarsi è un rischio e le aziende leader ne sono pienamente consapevoli.
Fare qualità nel piccolo
Infine, la spinta verso l’estero pare essere data dalla capacità di fare qualità nel piccolo e offrire servizi, piuttosto che ricercare efficienza attraverso la crescita dei volumi e l’abbattimento dei costi.
Questa seconda alternativa strategica, opposta alla prima, sembra, infatti, più coerente con la produzione di beni di massa e con le grandi dimensioni e dunque, nello scenario attuale, più facilmente attuabile nelle così dette economie emergenti.
In un contesto come quello italiano, l’unico posizionamento ancora sostenibile è quello della massima qualità, anche per intercettare più facilmente ciò che il resto del mondo si aspetta dal made in Italy.
Se la globalizzazione ha portato a uno spostamento degli assetti produttivi d’interi comparti merceologici nei paesi in via di sviluppo, con conseguenti e importanti perdite da parte delle economie occidentali, essa, attraverso la creazione d’ingente ricchezza, sta favorendo la nascita di nuovi consumatori.
Il calo della domanda interna non deve far pensare che il mondo sia in crisi, al contrario ci sono aree che registrano tassi di crescita mai sperimentati in precedenza, con l’emergere di milioni di potenziali clienti. Sono proprio costoro, i rappresentanti delle nuove elite di quegli stati, che si aspettano dalle produzioni italiane quell’eccellenza qualitativa nella manifattura, di rinascimentale tradizione, per cui siamo riconosciuti e apprezzati da molto tempo.
Marina Puricelli
Docente di Organizzazione Aziendale Bocconi e NIBI
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Posted on 18 Marzo 2016 by
Alessia Musumeci in
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Commenti disabilitati su L’importanza del risk management per il successo delle imprese
L’enfasi sugli obiettivi di risultato di breve periodo troppo spesso lascia poco spazio alla valutazione e alla quantificazione del rischio associato alle diverse scelte aziendali. Si tratta invece di un tema di vitale importanza: per creare valore e cogliere le opportunità del business è necessaria la presenza costante, all’interno del sistema decisionale e di controllo delle organizzazioni, di competenze e attività dedicate
di Marco Giorgino, Ordinario di Finanza Aziendale e Risk Management, Politecnico di Milano e MIP
1. Premessa
La storia dei sistemi economici e dei mercati finanziari degli ultimi anni è stata caratterizzata da molti casi di crisi e, nelle situazioni più patologiche, di dissesti che hanno certamente lasciato il segno. È difficile trovare un “trait d’union” tra tutti. C’è però un elemento molto ricorrente che caratterizza queste situazioni negative: è il disallineamento tra profili di rendimento e profili di rischio nell’ambito del sistema decisionale e di governance delle aziende. La forte enfasi data alla necessità di raggiungere obiettivi di risultato soprattutto nel breve periodo ha spesso lasciato poco spazio alla valutazione, e alla quantificazione ove possibile, del rischio associato a determinate tipologie di scelte. Il risultato è stato che si è verificato un disallineamento tra la massimizzazione dei risultati rispetto alla capacità di imprese e società bancarie e finanziarie di creazione del valore.
Non è un caso, pertanto, che una delle più importanti eredità che la storia degli ultimi anni ci lascia è la crescente attenzione alle tematiche di valutazione e gestione del rischio, in una parola quello che comunemente viene denominato risk management.
2. Definizione di risk management
Una definizione teorica è quella che vede il risk management definito come quell’insieme di azioni intraprese dalle aziende nel tentativo di alterare e controllare il livello di rischio associato alle linee di business e, in generale, all’impresa nel suo complesso. La valenza gestionale di questa definizione è quella di identificare i rischi associati a determinate scelte strategiche e operative dell’impresa e di assumere decisioni sulle modalità attraverso cui trattare tali rischi. Ci sono, tuttavia, alcune assunzioni errate rispetto al risk management che sarebbe opportuno puntualizzare.
Innanzitutto, è errato pensare che il rischio sia solo negativo (downside risk). L’innovazione e la capacità di cambiamento sono per definizione portatori di rischio ma sono, allo stesso tempo, generatori di opportunità in grado di creare valore per l’impresa (upside risk). Assumere una valenza esclusivamente negativa del rischio potrebbe portare all’immobilismo decisionale e al non cogliere e al non costruire determinate occasioni che, nel tempo invece, potrebbero rivelarsi di successo. Di conseguenza, è errato pensare che evitare il rischio sia per definizione una strategia vincente.
Oggi più che mai questo potrebbe essere dimostrato. Le imprese di successo, infatti, sono proprio quelle che investono e che hanno nell’innovazione e nel cambiamento alcune delle leve principali di sviluppo, con un governo del rischio che consente di cogliere le opportunità.
La disciplina del risk management ha avuto un’evoluzione molto rilevante con un’accelerazione forte proprio negli ultimi anni, nel periodo post-crisi. Da una visione estremamente ‘assicurativa’ del rischio, che ha portato nel tempo ad una ricerca di trasferimento del rischio verso l’esterno, in primis verso il mondo delle assicurazioni, si è passati ad una visione più ‘gestionale’, che porta alla necessità di trattare il rischio in modo più ‘attivo’ valutando cosa è opportuno trasferire e cosa invece è necessario, per cogliere i vantaggi di certe scelte, trattenere e finanziare internamente. Nell’evoluzione dell’approccio, si è assistito anche ad un allargamento sempre più ampio e complesso delle varie tipologie di rischio cui l’impresa è esposta. Tale evoluzione ha riguardato anche le competenze e le professionalità necessarie per assolvere al ruolo di risk manager.
Da una lettura storicamente più vicina alla figura dell’insurance manager, si è andati verso competenze più gestionali, che richiedono, da un lato, una maggiore conoscenza del business e dei suoi processi chiave, così come dei mercati finanziari dove poter trovare risposte alle esigenze di copertura ma anche elementi a supporto dell’interpretazione dell’evoluzione dell’impresa, e, dall’altro, una solida base quantitativa a supporto delle necessarie modellizzazioni per la misurazione e la gestione del rischio. La mappatura dei rischi dell’impresa oggi è un’attività estremamente articolata che passa attraverso un’attenta valutazione dei processi di business, del posizionamento sui mercati, del rapporto con intermediari e operatori finanziari, del modello organizzativo. Una recente analisi sulla mappatura dei rischi1 in un segmento molto importante del sistema imprenditoriale italiano, quale quello delle piccole e medie aziende, evidenzia la percezione dell’esposizione al rischio in tre principali categorie: a) rischi strategici, b) rischi finanziari, c) rischi operativi.
La declinazione di tali categorie in un dettaglio maggiore vede come rilevanti, nell’ambito dei rischi strategici, i rischi di concentrazione del portafoglio sia da un punto di vista di mercato che da un punto di vista di prodotto, i rischi regolamentari, ossia di adeguamento e compliance alla normativa, e, in misura sempre più crescente, i rischi reputazionali, uno dei principali elementi di novità emerso negli ultimi anni. Un’analisi più attenta sulla categoria dei rischi finanziari lascia emergere, come sarebbe ovvio attendersi, il rischio di credito, tema di forte criticità del momento, inteso come deterioramento delle posizioni creditorie, derivanti sia da attività commerciali sia da attività finanziarie, conseguenza dell’incremento della probabilità di insolvenza delle controparti.
Significativi, seppure in misura minore, i rischi di liquidità e quelli di tasso di interesse, legati ad andamenti imprevisti della dinamica finanziaria, da un lato, e a oscillazioni inattese dei tassi di interesse unite allo squilibrio delle strutture di attivo e passivo, dall’altro. Sul fronte, infine, dei rischi operativi, di spicco sono i rischi associati alla strutturazione dei processi aziendali e quelli collegati alla condotta dei manager e dei dipendenti, tema questo molto sentito anche in relazione alla disciplina regolamentare sulla responsabilità delle persone giuridiche.
Il quadro che ne emerge è composito e articolato. È espressione, non solo nell’esempio delle PMI ma estendibile a tutto il mondo dell’economia e della finanza, pur con differenti profili e connotazioni, di una crescente attenzione e consapevolezza sulla disciplina del rischio.
Le evoluzioni che mercati finanziari e sistemi economici hanno avuto negli ultimi cinque anni almeno hanno portato ad alzare il livello di attenzione e, di conseguenza, il volume di risorse dedicato alle attività di risk management in imprese, banche, assicurazioni, società finanziarie. Sono due almeno le categorie di fattori che hanno spinto verso tali evoluzioni.
Da un lato, ci sono i fattori normativi e regolamentari. La risposta in termini di regole e nuova normativa alle crisi recenti è stata importante. Alcuni settori in particolare sono stati oggetto di una revisione significativa del sistema regolamentare. Spesso, infatti, la risposta alle crisi o ai fallimenti di grandi aziende o di importanti istituzioni è una risposta regolamentare. E altrettanto spesso il contenuto regolamentare è un contenuto focalizzato sulla disciplina nell’assunzione, nella misurazione, nella gestione dei rischi. I settori bancari e finanziari sono storicamente settori regolamentati e vigilati. E sono stati fortemente interessati, in passato e in tempi più recenti, da questo tipo di evoluzione. Altra categoria è rappresentata da fattori economici e finanziari. Le risposte regolamentari sono anche la risposta a fattori economici e finanziari che evolvono. È importante, tuttavia, tenere separate queste categorie sia perché non tutti i settori sono regolamentati e vigilati sia perché i comportamenti delle aziende in questo caso non sono forzati da regole ma sono guidati e decisi da valutazioni discrezionali. Esempi di fattori evolutivi in tal senso sono la maggiore integrazione, fino alla globalizzazione in alcuni casi, dei mercati che espone le imprese a fattori, una volta poco considerati, che possono modificare i propri risultati attesi.
Altro esempio è la crescente difficoltà nella gestione delle posizioni creditorie, dovuta al deterioramento di ampi comparti dell’economia. Questo fattore sta portando le imprese più attente a costruire e ad intensificare, anche con risorse dedicate, processi di selezione e di monitoraggio della clientela molto più articolati e sofisticati.
La distinzione tra fattori regolamentari e fattori economici è importante. È spesso una chiave di lettura che consente di cogliere la differenza tra chi è ‘obbligato’ a costruire e implementare sistemi di gestione dei rischi perché deve aderire a norme e codici e chi invece decide discrezionalmente di farlo perché ne valuta positivi gli effetti. Con questo non si vuole affermare che i settori regolamentati siano passivi ma certamente hanno una spinta in più. Tale differenza, peraltro, potrebbe essere letta anche come differenza tra approccio ‘formale’ e approccio ‘sostanziale’ alla costruzione del sistema di gestione dei rischi.
4. Alcune ‘regole’
La funzione di risk management all’interno delle organizzazioni aziendali assume ormai da tempo una rilevanza significativa. Le modalità attraverso cui, però, tale funzione sviluppa le proprie attività sono varie e possono essere valutate attraverso diversi livelli di integrazione rispetto al resto della struttura. Il punto è centrale. La funzione è integrata e supporta i processi chiave dell’impresa pur mantenendo la sua indipendenza oppure la funzione esercita esclusivamente un ruolo di monitoraggio e di misurazione in una logica di controllo? Alcuni principi generali potrebbero aiutare nell’interpretare e costruire il ruolo della funzione in una chiave costruttiva, sostanziale, attiva.
- La funzione deve contribuire alla creazione del valore. Se si parte da modelli valutativi che basano il proprio funzionamento sull’equilibrio tra rendimento e rischio, ciò vuol dire che nell’ambito del sistema decisionale aziendale la valutazione dei rendimenti non può prescindere dalla determinazione del rischio associato a quei rendimenti ed è per questo che sempre più diffusi sono gli indicatori risk-adjusted nella misurazione delle performance aziendali.
- La funzione deve essere coinvolta nei processi di pianificazione strategica. Il livello di coinvolgimento sia sostanziale e non una mera questione formale. Nel momento in cui il top management dell’azienda prende decisioni strategiche, all’interno del processo decisionale, in modo indipendente, l’attività di risk management deve contribuire indirizzando la decisione dove il profilo rendimento-rischio possa essere ottimizzato.
- La funzione deve essere parte integrante del sistema di governance e organizzativo. Spesso ci si interroga su quale sia la collocazione più corretta affinché la funzione assolva nel migliore dei modi al proprio ruolo. Da un lato, c’è la necessità che essa eserciti un ruolo di contributore al processo decisionale, ed è per questo che risulta opportuno tenerla molto vicina ai ruoli e ai processi di business. Dall’altro, c’è l’importanza di considerarla come l’elemento di garanzia affinché le risk policies definite dal consiglio di amministrazione, con il supporto eventuale di comitati consultivi (es. comitato per il controllo interno), siano rispettate quando sono prese decisioni, a tutela del patrimonio aziendale.
- La funzione identifica il rischio per poterlo gestire. Fondamentale è il ruolo della funzione nell’assessment del rischio al fine di poter definire quali sono le più opportune modalità di gestione, ossia le strategie attraverso cui trattarlo. Considerando le categorie di rischio che classificano il rischio sotto i profili strategici, finanziari ed operativi, si può osservare come (Figura 2) le imprese italiane, che pur manifestano ancora una rilevante incidenza delle soluzioni di risk transfer, siano diventate più attive. Il trasferimento del rischio, infatti, è stato sovente la soluzione, attraverso la ricerca di prodotti e strumenti nel mercato assicurativo e finanziario. Negli ultimi tempi, a questo, si sono accompagnate soluzioni di gestione del rischio vere e proprie. È, infatti, un dato importante quello relativo alla scelte di risk reduction e di risk retention. Alla riduzione del rischio si perviene attraverso un’analisi dei processi aziendali che consenta di cogliere per ogni fattore la probabilità di accadimento e l’impatto eventuale. Così facendo, è possibile identificare soluzioni che mirino a ridurre tali probabilità e a mitigarne gli effetti, arrivando a ‘ritenere’ quei rischi che è opportuno l’azienda corra per poter generare valore e che, pertanto, dovranno essere finanziati internamente con una adeguata capitalizzazione.
- La funzione evolve con l’evoluzione del business dell’azienda. La funzione è parte integrante dell’impresa. Pertanto, è molto importante che essa abbia un’evoluzione che tenga conto, da un lato, dell’evoluzione del modello di business e dei processi dell’impresa, e, dall’altro, dei cambiamenti che intercorrono sui mercati finanziari e nei sistemi economici.
5. Conclusioni
Le crescenti sfide che caratterizzano aziende industriali, bancarie, assicurative e finanziarie richiedono la presenza costante all’interno del sistema decisionale e di controllo di tali organizzazioni di competenze e attività dedicate che consentano di non perdere mai la vista su quale sia il profilo di rischio. È tema centrale nella vita delle aziende. È importante, però, che tale presenza abbia una natura di sostanza e non serva solo ad ottemperare a dettami normativi o a costruire soluzioni di facciata che nulla servono rispetto ad una gestione responsabile del business e ad una sostenibilità della vita di tali aziende nel tempo.
Posted on 17 Marzo 2016 by
Alessia Musumeci in
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Commenti disabilitati su Il futuro del cambiamento tecnologico nel business
Dal report, realizzato dall’EIU e sponsorizzato da Ricoh, emerge come le tecnologie continueranno a influenzare in modo significativo i modelli di business per tutto il prossimo decennio. Di conseguenza, per continuare a competere sul mercato e cogliere nuove opportunità le aziende dovranno fare leva sull’evoluzione dell’IT. Processi flessibili, strutture aziendali dinamiche e strumenti che migliorino l’interazione con i dipendenti e i clienti: queste sono le condizioni necessarie affinché un’azienda riesca ad adattarsi rapidamente al mercato e a trarre vantaggio dai cambiamenti tecnologici.
La necessità di cambiamento, per il quale la tecnologia funge da driver, viene principalmente attribuita alla sempre maggiore disponibilità di banda e di applicazioni e servizi di archiviazione erogati tramite il cloud. Parallelamente le aziende devono far fronte al fenomeno dei ‘Big Data’, vale a dire l’aumento esponenziale dei volumi di dati da gestire. Un’altra tendenza nelle aziende riguarda il sempre maggior utilizzo dei social media e di strumenti per la comunicazione video. E’ interessante notare come questi e altri strumenti tecnologici esistano già da tempo, ma verranno utilizzati in modo nuovo e questo, insieme allo sviluppo di nuovi tool, porterà a cambiamenti radicali nei modelli di business.
Carsten Bruhn, Executive Vice President di Ricoh Europe PLC commenta: “La tecnologia fine a se stessa non consente alle aziende di tenere il passo con i cambiamenti necessari a crescere e a competere. Sono l’innovazione e l’ottimizzazione dei processi di business, rese possibile dalle tecnologie, a portare vero valore aggiunto. L’obiettivo di questo cambiamento radicale è migliorare l’accesso alle informazioni e favorire la collaborazione e la condivisione della conoscenza. I manager delle aziende devono scegliere partner che siano in grado di concretizzare i cambiamenti in maniera costante nel tempo. Non è infatti più pensabile di implementare tecnologie per ottenere efficienza solo nel breve periodo”.
Tra i principali risultati della ricerca:
- Saranno pochi i settori industriali a non essere coinvolti nei cambiamenti tecnologici. Sei intervistati su dieci fra i business leader sono convinti che molti settori nei quali operano subiranno modifiche significative da adesso al 2020, assumendo caratteristiche assai diverse da quelli di oggi.
- Per coloro che saranno in grado di gestirli, i “Big Data”, diventeranno un’attività di business vera e propria. La Commissione Europea stima che la gestione dei dati di tipo governativo potrebbe creare un giro di affari di circa 40 miliardi di euro, stimolando la crescita di nuovi servizi informativi.
- Le transazioni sono sempre più automatizzate e la collaborazione tra strutture distribuite diventa sempre più virtuale. Di conseguenza anche la funzione degli archivi fisici e, più in generale, degli uffici è destinata a cambiare. Oggi le transazioni bancarie sono per la maggior parte automatizzate e le filiali ricoprono sempre più un ruolo consulenziale anziché operativo. Questa tendenza interesserà anche altre strutture che fungono da interfaccia con la clientela.
- Entro il 2020 i clienti sostituiranno la tradizionale funzione di ricerca e sviluppo e saranno la principale fonte di idee per lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi. Inoltre, gli intervistati ritengono che i clienti contribuiranno allo sviluppo di idee per il miglioramento dei processi aziendali esattamente come i dipendenti.
- Si assisterà a uno spostamento verso processi decisionali decentralizzati: il 63% dei responsabili aziendali è convinto che nelle aziende si stia affermando un modello gestionale decentralizzato. Questo significa che i processi decisionali si sposteranno dal board aziendale ai singoli dipendenti.
- L’organizzazione del 2020 sarà più “trasparente” di quanto non lo sia mai stata. Nel prossimo decennio, le aziende avranno grande difficoltà a nascondere servizi scadenti, prezzi troppo alti oppure altri approcci non corretti, in quanto la tecnologia le renderà trasparenti di fronte agli occhi degli utenti finali più di quanto sia mai avvenuto prima.
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Posted on 17 Marzo 2016 by
Alessia Musumeci in
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Commenti disabilitati su Modelli di business innovativi
«La rete libera è un’opportunità. Un ambiente dove è facile operare. Sulla rete libera è possibile raggiungere mercati emergenti, generare nuovi modelli di business, abbattere i costi. Come tutte le opportunità, comporta anche dei rischi, soprattutto per i business tradizionali. Che però devono accettare la sfida». Luigi Perissich, direttore di Confindustria servizi innovativi e tecnologici, è appena uscito da una riunione sulla regolamentazione del web.
Nonostante i timori diffusi tra gli associati sull’eventualità che si arrivi a un eccesso di regolamentazione della rete, sfida l’impopolarità e invita a un dialogo con i settori tradizionali. «In qualsiasi mercato, infatti, chi ha già delle posizioni di preminenza a volte non vede l’innovazione come un fenomeno del tutto positivo: nessuno vuole perdere quello che ha già. Ma la storia dimostra che la discontinuità tecnologica apre sempre nuovi spazi, anche per nuovi attori». L’innovazione va colta. «Uno dei temi su cui questo è ormai chiaro è quello dei contenuti digitali. Penso a quello che ha fatto Apple con la musica. Oppure ai tentativi di apertura ai libri digitali compiuti in Italia: oggi, tra i più importanti editori digitali c’è poco o nulla delle case editrici tradizionali». Darsi da fare per non subire il cambiamento. «Non sono passaggi facili. Esistono modelli di business che devono cambiare. La nostra associazione è aperta a discutere con tutti i soggetti coinvolti per trovare soluzioni condivise, nell’ottica della convergenza tra reti, contenuti e produttori di contenuti».
Il dialogo è indispensabile anche per la regolamentazione del web. «Dobbiamo puntare a una co-regolamentazione: i migliori risultati si ottengono quando c’è coinvolgimento di tutti». A patto che ci si avvicini all’argomento con il giusto approccio. «Si dovrà tener conto di che cos’è internet, della sua straordinaria capacità di resistere ai tentativi di blocco o filtraggio. Questa è la base del discorso: qualunque soluzione dovrà essere condivisa tra gli attori commerciali e contare su una forte iniziativa di collaborazione degli utenti, i quali dovranno accettare il principio secondo cui anche online, come nella vita reale, ognuno è responsabile di quello che fa».
a.larizza@ilsole24ore.com
Posted on 16 Marzo 2016 by
Alessia Musumeci in
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Commenti disabilitati su Innovare è un must: si parte dalle risorse umane ed è vietato sprecare
Per far fronte a una competizione sempre più globale, le aziende italiane devono gestire in modo più efficiente i processi di sviluppo e progettazione. Gli ostacoli da superare non mancano ma quattro modelli permettono di fronteggiarli. E a livello di competenze It sarà sempre più accentuato il potenziamento di ruoli dedicati presidio dei clienti interni e alla governance.
Sprechi di tempo, di conoscenza e di risorse frenano l’innovazione e lo sviluppo, che sono due degli elementi di cui le Pmi e le grandi aziende italiane necessitano per competere sui mercati internazionali. Se poi a riscontrare, più o meno frequentemente, una perdita di tempo nelle modifiche ai progetti dovute ai cambiamenti nelle priorità sono il 90% delle imprese ecco che le attività di progettazione e le problematiche che le interessano meritano un approfondimento. La fotografia scattata dall’Osservatorio GeCo (Gestione dei Processi Collaborativi di Progettazione) della School of Management del Politecnico di Milano ci dice per esempio che il 78% del campione di 400 imprese italiane attive in diversi settori industriali si ritrova a dover rifare i progetti dopo aver riscontrato inesattezze nei dati di partenza. Quali spiacevoli conseguenze genera questa inefficienza? Troppe e continue richieste di modifica, sovraccarico dei progettisti e (interessa più di un terzo delle aziende) lo sforamento dei costi dei progetti.
Se innovare, con l’ausilio delle tecnologie informatiche e digitali, è un passaggio obbligato per recuperare competitività sullo scenario globale, ecco che sprechi come il tempo necessario per inserire manualmente informazioni del progetto in più sistemi informativi (transcodificando manualmente dati e codici) non sono più tollerabili. Eppure penalizzano il 72% delle aziende. E dicasi lo stesso per l’utilizzo non adeguato delle risorse derivante dalla sovra-progettazione di prodotto, con conseguente crescita dei costi di sviluppo. Meno rilevanti, ma nell’era dei Big Data, del cloud e delle analytics sono percentuali da considerare attentamente, sono gli sprechi di conoscenza legati all’aver progettato prodotti con funzionalità non richieste dal mercato, un difetto riscontrato dal 55% delle aziende.
C’è modo di poter ordinare la progettazione in azienda verso la riduzione degli sprechi e la crescita della competitività? Si c’è, e dall’Osservatorio si evidenziano quattro modelli di innovazione cui fare riferimento e già avviati dalle realtà analizzate. Il primo è la progettazione orientata al cliente, che consente di essere competitivi nei costi e nelle tempistiche e maggiormente orientati alla customizzazione. Un secondo modello perseguito dalle aziende italiane si basa su un approccio formale e pianificato alla creazione, con rilevazioni di performance e un aggiornamento costante e documentato dei progetti. Una terza via all’innovazione è quella della progettazione collaborativa, e cioè l’esplorazione simultanea e condivisa di diverse alternative progettuali, che aumenta la flessibilità, la tempestività e la puntualità di esecuzione. C’è quindi un quarto modello ed è quello basato sulla sostenibilità dei prodotti, che si concretizza attraverso l’attenzione alla logistica e alla seconda fase del ciclo di vita del prodotto stesso, lavorando sull’aspetto della differenziazione. Il tutto, ovviamente, condito dagli strumenti tecnologici e digitali.
Se da un lato si investe ancora troppo poco in innovazione, appare invece accresciuta la consapevolezza di quanto l’acquisizione di nuove competenze digitali sia un passo fondamentale per continuare a giocare un ruolo importante per le imprese. Se da una parte assistiamo all’evoluzione delle tecnologie e all’affermazione di paradigmi quali i Big Data Analytics, l’Internet of Things e il Mobile, dall’altra lo sviluppo di competenze innovative e l’individuazione di nuovi profili professionali in grado di presidiarle e diffonderle rappresentano asset fondamentali per supportare il processo di trasformazione digitale in seno alle singole organizzazioni.
Un’altra ricerca del Politecnico, condotta dalla Digital Innovation Academy su un campione significativo di Cio di grandi imprese operanti in Italia, mostra come in tal senso anche in futuro verrà confermato il trend che ha portato negli ultimi anni ad un progressivo snellimento del nucleo operativo a fronte di un potenziamento di altri ruoli e competenze. Il 17% delle direzioni Ict, in particolare, prevede l’aumento delle risorse dedicate al presidio dei clienti interni, il 14% indica la crescita dei ruoli dedicati alla governance e il 19% pianifica un incremento delle figure della linea intermedia. L’orientamento dei Chief information officer e responsabili It appare nel complesso rivolto all’acquisizione e al rinforzo di tutte le competenze (di progetto e di gestione, tecnologiche e di business) e in particolare di quelle relative allo sviluppo (e quindi Innovation Management, Change Management, Demand Management, Program e Project Management). La prima priorità organizzativa, comune alla metà delle imprese censite, è infatti la gestione dell’innovazione volta al miglioramento dei processi aziendali, delle relazioni con i clienti ma anche dei modelli di business. E questa, per Cio, è una delle sfide da vincere più importanti nel 2015.
Il Sole 24 ore
Posted on 15 Marzo 2016 by
Alessia Musumeci in
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Commenti disabilitati su Misure per l’autoimprenditorialità – Nuove imprese a tasso zero
Sulla base dell’esperienza maturata nell’applicazione del principale strumento nazionale di sostegno alla realizzazione e all’avvio di nuove attività imprenditoriali di piccola dimensione, il decreto legislativo n. 185/2000 di cui Invitalia è il soggetto gestore, è stata introdotta dal legislatore una radicale modifica degli incentivi in favore dell’autoimprenditorialità di cui al Titolo I del citato decreto legislativo.
Per l’applicazione dell’intervento è stato adottato il nuovo regolamento con il decreto 8 luglio 2015 n. 140.
Le principali novità sono:
- si rivolge non solo ai giovani fino a 35 anni, ma anche alle donne indipendentemente dall’età
- è applicabile non più nelle sole aree svantaggiate ma in tutto il territorio nazionale
- non prevede l’erogazione di contributi a fondo perduto, ma solo la concessione di mutui agevolati a tasso zero, per investimenti fino a 1,5 milioni di euro (per singola impresa)
- possono presentare la domanda di accesso alle agevolazioni le imprese costituite al massimo da 12 mesi
- possibilità di presentazione della domanda anche da parte di persone fisiche che intendono costituire una società.
Sono agevolabili, fatti salvi alcuni divieti e limitazioni previsti dal regolamento comunitario sugli aiuti d’importanza minore, cosiddetti de minimis, le iniziative che prevedono programmi d’investimento non superiori a 1,5 milioni di euro relativi a:
- produzione di beni nei settori dell’industria, dell’artigianato, della trasformazione dei prodotti agricoli;
- fornitura di servizi, in qualsiasi settore;
- commercio e turismo;
- attività riconducibili anche a più settori di particolare rilevanza per lo sviluppo dell’imprenditorialità giovanile, riguardanti:
- la filiera turistico-culturale (intesa come attività finalizzate alla valorizzazione e alla fruizione del patrimonio culturale, ambientale e paesaggistico, nonché al miglioramento dei servizi);
- l’innovazione sociale (intesa come produzione di beni e fornitura di servizi che creano nuove relazioni sociali ovvero soddisfano nuovi bisogni sociali, anche attraverso soluzioni innovative).
Le agevolazioni sono concesse, sulla base di una procedura valutativa con procedimento a sportello, ai sensi e nei limiti del sopra citato regolamento de minimis, che prevede, in particolare, che le imprese possono beneficiare delle agevolazioni fino al limite massimo di 200 mila euro, tenuto conto di eventuali ulteriori agevolazioni già ottenute dall’impresa a titolo di de minimis nell’esercizio finanziario in corso alla data di presentazione dell’istanza e nei due esercizi finanziari precedenti.
Per più informazioni consulta il sito del MiSE.