La bocciatura di Moody’s: Pmi italiane troppo deboli
Erano il punto di forza del tessuto imprenditoriale italiano, il motore di un’economia che dà lavoro a 5,2 milioni di persone e genera oltre il 40% del Pil del settore privato. Ma a smontare il mito delle piccole medie imprese ci ha provato Moody’s, una delle tre maggiori agenzie di rating a livello mondiale. In un report di 17 pagine sulle differenze tra Pmi in Europa, sottolinea la pessima performance di quelle italiane, con il più alto tasso di fallimento dei Paesi presi in considerazione. Ossia Belgio, Francia, Portogallo, Spagna e Gran Bretagna. «Seppure le Pmi italiane forniscano il più alto valore aggiunto all’economia del Paese, la loro performance resta relativamente debole — scrive Moody’s — con un saldo aziende fermo ai tempi della crisi del 2008 e un tasso di mortalità delle imprese che supera di oltre l’1% quello di natalità».
La Gran Bretagna
Non che Moody’s abbia svelato chissà quale arcano rebus, i dati diffusi dall’agenzia di rating sono presi infatti da Istat, Cerved e Banca d’Italia. Ma i numeri, messi alla prova del confronto con alcuni Paesi europei, fanno un certo effetto. Prendiamo ad esempio la Gran Bretagna, il più dinamico nella crescita di Pmi negli ultimi dieci anni. Il loro valore aggiunto fornito all’economia nazionale è aumentato dell’11,6% nel 2014 contro una media europea del 3,3%. Merito di fondi privati, competizione e misure politiche che secondo Moody’s hanno portato non solo a far crescere le piccole imprese ma anche a diminuire il tasso di disoccupazione passato dal picco dell’8,1% del 2011 al 5,1% del 2015. Dati che confermano quanto, negli Anni 80, andava dicendo persino l’Ocse secondo cui «il settore delle piccole imprese stava svolgendo un ruolo insostituibile per combattere la disoccupazione mondiale».
E in Italia? Per Moody’s, ci si è dovuti accontentare del primo calo delle sofferenze delle Pmi, passate dal 3,9% del 2014 al 3,6% del 2015. Un ritmo di decrescita considerato «troppo lento». E altrettanto lenti e graduali sono valutati gli effetti delle decisioni prese dal governo in tema di riduzione delle sofferenze bancarie e dei crediti deteriorati in circolazione. Misure che, secondo l’agenzia di rating, avranno bisogno di tempo per ottenere risultati concreti.
L’esposizione alle banche
«Le Pmi italiane hanno scontato negli anni la completa esposizione al sistema bancario e la totale chiusura a qualsiasi altro tipo di finanziamento — spiega Alessandro Minichilli, professore di Strategia e imprenditorialità alla Bocconi ed esperto di Pmi e imprese familiari — al contrario degli altri Paesi in cui si è diffuso più velocemente il private equity e il venture capital. Ma non solo. Per tanti anni — aggiunge il professore — ci siamo vantati del “piccolo è bello” senza pensare all’internazionalizzazione e alla diversificazione del rischio. E così le nostre imprese, tutte concentrate a investire sull’Europa, una volta che la crisi ha colpito proprio il Vecchio Continente ne sono rimaste praticamente travolte».
La protesta della Cna
Le imprese italiane però non sono proprio dello stesso parere: «Quella di Moody’s è un’analisi ingenerosa e non analizza il problema nella sua completezza — spiega Sergio Silvestrini, segretario generale della Cna, la Confederazione dell’artigianato e della piccola media impresa —. Per performare meglio è necessario anche un contesto in grado di supportare le aziende: meno burocrazia, più credito, pagamenti puntuali e un mercato con regole più amiche dell’impresa. È innegabile poi che l’Italia sia uno tra i Paesi più massacrati dalla crisi del 2008 e le conseguenze hanno pesato anche sulle Pmi».